Alessandro Montanari, sono trascorsi alcuni anni dalla pubblicazione di ”Euroinomani” e dalla tua critica verso un europeismo acefalo. Come vedi oggi lo stato di salute dell’Unione?
R. L’Unione Europea non ha cambiato la propria architettura istituzionale e soprattutto non ha riformato la Bce che ha ancora come unico obbiettivo il mantenimento dell’inflazione entro una certa soglia mentre non si pone obbiettivi di stimolo alla crescita economica. Tutto questo rende ancora problematica, in particolare nei momenti di stress dell’economia, la condivisione della moneta unica visto che l’euro è e resta sostanzialmente un marco tedesco sotto mentite spoglie e questo implica qualche vantaggio competitivo per i tedeschi, che si trovano con una moneta costituzionalmente svalutata rispetto al vecchio marco, e con gli svantaggi del caso per noi italiani che ci ritroviamo con una moneta troppo forte per la nostra economia e che non possiamo più svalutare all’occorrenza. Detto questo, l’Europa non è solo un problema. E’ e resta soprattutto una risorsa a nostra disposizione. Lo dico perché dopo il mio Euroinomani, che conservava anche un po’ il piacere dell’ironia intellettuale contro il dogmatismo pedante del pensiero mainstream, è fiorita una letteratura euroscettica lugubre, ideologica, compiaciuta delle proprie semplificazioni ed evidentemente ispirata alla e, forse anche dalla, estrema destra.
La professione che svolgi ti vede in prima linea dentro l’acceso dibattito politico nostrano: in questi anni abbiamo visto una discreta alternanza di governi. Ritieni che la vittoria della destra, della sinistra, degli europeisti o dei sovranisti abbia comportato una significativa differenza nelle politiche fiscali, sociali e del lavoro dei vari esecutivi?
R. No, ma non capisco se è un problema di ineluttabilità, legata ai noti problemi dei conti pubblici italiani, o di talento e coraggio della nostra classe dirigente. Il governo Lega-Cinquestelle, l’unico vero governo anti-sistema che abbiamo avuto, ha mostrato coraggio (il reddito di cittadinanza, il decreto dignità, la reazione al crollo del Ponte Morandi…) ma poco talento e si è via via spaventato di fronte al pressing combinato di Bruxelles e poteri finanziari, fino a disunirsi politicamente ed implodere su se stesso. Europa e poteri finanziari non volevano che quel governo, etichettato non a caso “il governo dei barbari”, potesse rappresentare un esempio diseducativo, mostrando a tutti che alcune regole base dell’Europa erano veri e propri dogmi nati male, invecchiati peggio e, dunque, da superare. Oggi almeno la discussione si è riaperta, anche se in definitiva il dibattito non è stato riaperto dalla politica, bensì dalle sciagure: il Covid prima e la guerra russo-ucraina poi. Dopo il cosiddetto Governo dei barbari non ho più avuto la sensazione che l’Italia potesse essere il motore di un cambiamento del paradigma europeo.
Partendo dalla globalizzazione sino ad arrivare ad oggi, il lavoro ha conosciuto una radicale trasformazione: in questi anni, a tuo avviso, le democrazie occidentali hanno saputo coniugare a sufficienza lo sviluppo economico con la redistribuzione sociale?
R. Il problema che assilla la politica è la crescita economica, non la redistribuzione. La crescita è così bassa che il problema dell’equa distribuzione della ricchezza nemmeno entra nell’agenda politica. Perché per redistribuire devi togliere qualcosa a qualcuno e, in una situazione di crescita scarsa o addirittura di recessione, questo significa perdere voti per non riguadagnarli altrove dal momento che quello che ricevono i bisognosi risulta comunque sostanzialmente insignificante. Ma il problema non è risolvibile a livello nazionale. E’ il modello economico della globalizzazione a favorire l’allargamento della forbice tra i ricchi e i poveri. Gli Stati possono solo mettere toppe, come il reddito di cittadinanza, che però, spiace dirlo, non ha certo abolito la povertà né migliorato le prospettive economiche e lavorative dei percettori. Il problema, quindi, è stimolare la crescita ponendosi come obbiettivo la piena occupazione, una occupazione – aggiungo – fatta di stipendi dignitosi. Le differenze di reddito ci saranno sempre. Quindi mi sembra più urgente il problema di garantire a tutti un reddito perché chi si pone obbiettivi impossibili finisce generalmente per non realizzare nemmeno quelli possibili. Ma come noto la piena occupazione spaventa i liberisti perché farebbe salire i salari e alimenterebbe l’inflazione, erodendo i patrimoni già accumulati.
L’innovazione tecnologica pare stia facendo un balzo che impatterà sui processi produttivi e sulle nostre vite: dalla AI alla computazione quantistica Quali cambiamenti ci attendono?
R. Sono la persona meno adatta per azzardare questa previsione. Sono a disagio con la tecnologia. Quando funziona, mi sembra un miracolo strabiliante e quando non funziona reagisco come siamo soliti fare noialtri cresciuti negli anni ’80, assestando al computer manate sempre meno caute che rischiano solo di peggiorare la situazione. Scherzi a parte, credo ci attenda una rivoluzione epocale, che farà scomparire molti lavori e ne creerà di nuovi, ma probabilmente meno di quelli eliminati. Quindi sarà importante che la politica governi questa nuova rivoluzione invece di subirla; ma come faranno i nostri poveri politici a provare ad imporsi quando le grandi compagnie contano ormai ben più dei singoli Stati nazionali? Credo peraltro che questo, oggi come oggi, sia l’argomento in assoluto più forte a disposizione dei sostenitori dell’Europa. Che tuttavia di questo, curiosamente, parlano assai poco. Mentre i sovranisti riescono a fare peggio, corteggiando platealmente uno come Elon Musk.
Parlando di lavoro e tecnologia: il capitolo 13 di Euroinomani descrive il modello di sviluppo da te auspicato, ritieni che l’esperienza Olivetti possa riproporsi attraverso nuove forme?
R. Temo di no. Olivetti era un genio, un innovatore, un filosofo, un sognatore, un umanista, un riformatore, un uomo di cultura e, credo, a suo modo anche un politico. Ma soprattutto Adriano Olivetti, volendo dirla con la semplicità dei nostri nonni, era una brava persona. Quando penso ad Olivetti mi torna in mente la Bibbia. In lui vedo il ricco che non trova rimprovero presso Dio per la sua ricchezza, vedo il cammello che passa attraverso la cruna dell’ago.
Restando su Olivetti, quanto ritieni importante, nel fare impresa, il territorio e la comunità che lo abita?
R. Pensavo che quello della relazione tra l’impresa e il territorio che la ospita fosse l’unico modello possibile. Poi è arrivata la globalizzazione, con le delocalizzazioni all’estero e lo smantellamento dei distretti industriali, e abbiamo visto quel modello disintegrarsi sotto i nostri occhi. E’ un modello migliore? No e non credo nemmeno che sia sostenibile nel medio-lungo termine perché andare a sfruttare il lavoro a condizioni semi-schiavistiche in giro per il mondo innesca focolai che prima o poi presenteranno il conto anche in termini geopolitici. Presso quei popoli di sfruttati, infatti, l’Occidente che parla tanto di diritti non esercita più alcun fascino e alcuna attrazione. Quell’Occidente ai loro occhi e alle loro orecchie di sfruttati è solo una bugia ipocrita. Da qui l’avanzata dell’imperialismo cinese che di diritti, veri o finti, nemmeno parla. I cinesi non vendono il sogno della democrazia per spuntare un prezzo migliore. Comprano a condizioni migliori per il venditore. Ecco perché l’Occidente avrebbe bisogno di un nuovo Olivetti. Perché il suo modello esaltava la dignità del lavoratore e la libertà dell’essere umano.
Mi piacerebbe un commento su questa frase: “ …il nostro futuro, se uno ancora ne vogliamo avere, sta tutto scritto nel nostro passato.”
R.Ti confesso che mi intristisce perché dà l’idea che nulla di nuovo e di bello possa più accadere. Ma se cambiamo quel “tutto” con un più ragionevole “anche”, allora la sposo. Perché quando io ero piccolo, ad esempio, mi ricordo che non c’era molto riguardo per l’ambiente, le fabbriche non avevano depuratori, a casa buttavamo via i rifiuti tutti insieme, le donne avevano accesso a pochi lavori, il bullismo a scuola e nelle caserme era sostanzialmente tollerato come una sorta di scuola di vita e l’omosessualità era tenuta nascosta. Insomma, non vorrei dilungarmi né indulgere a generalizzazioni, ma molte cose da allora sono migliorate. Tranne una. In quel passato c’era un ascensore sociale che funzionava davvero, non come adesso. Tanti miei compagni di classe, figli di operai, sono stati i primi laureati della famiglia. Ora i loro figli rischiano di alternare disoccupazione a lavoretti senza diritti e da quattro soldi. Dobbiamo riaggiustare quel benedetto ascensore.
Il ragazzo che sei stato ieri ha una riflessione che vorrebbe trasmettere ai ragazzi di oggi?
R. Quando ero ragazzo, il nostro era un mondo di ragazzi. In classe eravamo tantissimi. Forse perché la famiglia era ancora il perno della società. I genitori di allora sacrificavano tanto per i figli, ma quei figli li educavano con rigore e disciplina. Se i professori ci sgridavano, ci davano una nota o un brutto voto, era assolutamente scontato che i genitori avrebbero preso le parti del professore, mai e poi mai le nostre: sarebbe stato un modo per giustificarci e deresponsabilizzarci. Dunque tornado alla tua domanda di prima sul nostro futuro, io penso che l’unico modo per costruire un futuro migliore sia fare dei nostri figli delle brave persone. Oneste, coscienziose, leali, responsabili. Sono sicuro che qualcosa di buono ne verrà.
Alessandro Trabucco