giovedì 9 Ottobre 2025
redazione@obiettivonews.it - 342.8644960
Direttore: Magda Bersini
spot_img

CUORGNÈ – Aperto l’anno accademico 2025/2026 dell’Unitre

Il carcere come specchio della civiltà: giustizia, educazione e dignità

CUORGNÈ – L’Unitre di Cuorgnè mercoledì 8 ottobre ha riaperto l’anno accademico 2025-2026 con 31 conferenze programmate, offrendo un percorso formativo ricco e variegato.
All’Unitre di Cuorgnè non si viene solo per seguire lezioni, ma per incontrarsi, condividere e sentirsi parte di una comunità. È proprio nei momenti tra una lezione e l’altra, durante una gita o attorno a un tavolo di lettura, che nascono legami autentici e duraturi. Conoscere è bello. Conoscere insieme, lo è ancora di più. Ha aperto la conferenza il sindaco Giovanna Cresto, presente con il vicesindaco Giovanni “Vanni” Crisapulli, l’assessore Laura Ronchietto Silvano, l’assessore Lara Calanni Pileri e i consiglieri Maria Grazia Gazzera e Bruno Bruschi. Sono intervenuti anche il consigliere Mauro Fava e Sara Bertone, ispettrice delle Infermiere volontarie: quelle che tutti conosciamo come crocerossine, insieme a volontari della Croce Rossa. Dopo i saluti della Presidente Unitre Cuorgnè Maria Calvi di Coenzo è iniziata la conferenza.


Nel corso della conferenza inaugurale dell’anno accademico 2025-2026 dell’Unitre di Cuorgnè, il tema del carcere è stato affrontato da tre voci diverse ma complementari: l’avvocato Mauro Bianchetti, il volontario Sergio Abis e Armando Michelizza, presidente dei Volontari Penitenziari dell’Associazione Beiletti, ciascuno portatore di una prospettiva che intreccia diritto, esperienza e umanità.
L’avvocato Bianchetti ha aperto i lavori ponendo una domanda cruciale: che cosa dice di noi il modo in cui trattiamo chi ha sbagliato? Richiamandosi all’articolo 27 della Costituzione, ha ricordato che la pena deve tendere alla rieducazione e non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Ha però denunciato una realtà drammatica: sovraffollamento cronico, carenze strutturali, personale educativo insufficiente e un tasso di recidiva altissimo, che solo il lavoro e la formazione riescono a ridurre.
Ha citato l’Associazione Antigone come esempio di impegno civile nel monitorare i diritti dei detenuti e ha invitato a ripensare il sistema in chiave meno “carcero-centrica”, capace di privilegiare misure alternative e percorsi di reinserimento. La sua conclusione è stata un richiamo etico: una società si misura dal modo in cui tratta chi ha sbagliato. Il carcere, se vuole avere un senso, deve essere luogo di riscatto e non di mera punizione.

Il volontario Sergio Abis ha poi portato l’attenzione sul fallimento pratico del sistema attuale. Ha ricordato che quasi il 70% dei detenuti torna a delinquere e che lo Stato spende miliardi di euro per mantenere strutture che producono nuova marginalità. Le carceri italiane, ha detto, non contengono “mostri”, ma esseri umani fragili: tossicodipendenti, persone con disturbi psichici, stranieri senza sostegno, poveri. Ha denunciato la scarsità di educatori e le giornate vuote dei detenuti, prive di attività realmente rieducative. Ma ha anche raccontato esperienze virtuose, come la cooperativa “La Collina” in Sardegna, dove i detenuti lavorano, imparano, vivono in comunità: qui la recidiva è scesa al 4% e non ci sono state fughe in trent’anni. Abis ha concluso con una riflessione potente: una società giusta non è quella che punisce di più, ma quella che riesce a redimere di più. Il carcere, per funzionare davvero, deve insegnare a vivere, non solo a sopravvivere.
Infine, Armando Michelizza ha portato la voce dell’esperienza diretta: quarant’anni trascorsi accanto ai detenuti come formatore e volontario. Ha raccontato con semplicità che il vero dramma del carcere non è il sovraffollamento, ma il vuoto: la mancanza di senso nelle giornate, di lavoro, di fiducia. “L’ozio forzato è una condanna nella condanna,” ha detto, perché comunica sfiducia e annulla la dignità. Ha ricordato casi di detenuti che arrivano al suicidio per disperazione o per paura del ritorno alla libertà. Ma ha anche descritto piccoli grandi gesti di rinascita: corsi di formazione, laboratori, il giornalino redatto dai detenuti, fino al corso di maglia che ha permesso a un padre di confezionare un dono per la nipotina mai conosciuta.

Michelizza ha sottolineato che educare non è addestrare: è proporre valori, offrire relazioni, coinvolgere tutta la comunità. Ha ricordato l’esempio di un ex camorrista che, dopo anni di detenzione, ha studiato e scritto un libro per rompere la catena del male, e ha concluso con un invito alla responsabilità collettiva: non bisogna abolire il carcere, ma farlo funzionare come luogo di umanità. Redimere un detenuto, ha detto, non è solo un atto di giustizia, ma un segno di civiltà.
Dalle tre voci è emerso un messaggio comune e profondo: il carcere è lo specchio della società. Se è ingiusto, chiuso e disumano, riflette una società che ha smesso di credere nel cambiamento. Se invece sa offrire educazione, lavoro e fiducia, diventa un laboratorio di civiltà, dove anche chi ha sbagliato può tornare a essere parte della comunità. La vera sicurezza non nasce dalle sbarre, ma dalle relazioni; non dal punire, ma dal capire; non dal chiudere, ma dal ricominciare. Solo quando il carcere saprà unire giustizia, educazione e dignità, potremo dire di vivere in un Paese davvero civile.
Giorgio Cortese – foto di Osvaldo Marchetti

------------------------------------------------------------------------------

© Riproduzione riservata - vietato l'utilizzo di testi, video e foto se non espressamente autorizzato dall'Editore.

Per restare sempre aggiornato con le notizie di ObiettivoNews, iscriviti ai nostri canali gratuiti:
la newsletter di WhatsApp per le notizie di Cronaca (per iscriverti invia un WhatsApp con scritto NEWS ON al 342.8644960);
il nostro canale Telegram (ObiettivoNews);
il nostro canale WhatsApp https://whatsapp.com/channel/0029Va9vIQO30LKS6x1jWN14 con le notizie selezionate dalla nostra redazione.

ALTRI ARTICOLI CHE TI POTREBBERO INTERESSARE

spot_img
spot_imgspot_img