Una vita spesa tra musica, teatro, televisione, colonne sonore di importanti film che hanno fatto la storia del nostro Paese e la passione per la scrittura. Gianni Mauro, puoi presentare ai nostri lettori il tuo ultimo lavoro letterario: “Tressette col morto?”
R. Io sono sempre stato un grande dissacratore, un autore estremamente ironico, sarcastico, spiritosamente tagliente, ma esiste l’altra faccia di me stesso, che ho espresso in molte canzoni e non solo, che è fortemente malinconica, inquieta, amareggiata. D’altra parte, come suggeriva Luigi Pirandello, nel “Saggio sull’umorismo”, il confine fra comico e tragico è sempre estremamente labile. Faceva l’esempio di una donna molto avanti con gli anni che si veste e si imbelletta come una signorina. La prima reazione che scatta in noi, che Pirandello definisce “l’avvertimento del contrario”, è quella di ridere di questa anziana signora e magari anche di prenderla in giro con cattiveria. Ma quando ci rendiamo conto della tragedia che questa vecchia donna sta vivendo perché non riesce ad accettare, con rassegnazione, l’inevitabile trascorrere del tempo, scatta in noi “Il sentimento del contrario” e interviene in noi una sorta di “pietas” di “compassione” nei confronti di questa povera donna presa ad esempio. Io mi muovo molto fra ironia e malinconia. In questo mio ultimo libro “Tressette col morto” , che è costituito da 11 racconti, c’è la parte preponderante che è fortemente paradossale, surreale, stravagante, sarcastica e questa parte è ispirata molto al “teatro dell’assurdo” di Eugene Ionesco, di Samuel Beckett, di Fernando Pessoa, ma ci sono anche racconti in cui è presente la sofferenza, il “mal de vivre”.
La canzone che hai scritto per il film “Il ragazzo di campagna” ha attraversato le generazioni. Raccontaci qualche aneddoto sulla composizione del testo e su cosa ti ha ispirato.
R. Ho collaborato molte volte con il Maestro Detto Mariano come autore di sigle delle colonne sonore, fra cui appunto, “Il ragazzo di campagna” con Renato Pozzetto, “Il bisbetico domato” con Celentano e la Muti, “Spaghetti a mezzanotte” con Lino Banfi e Barbara Bouchet ed altri. Relativamente alla sigla di “Il ragazzo di campagna” c’è un aneddoto che potrebbe far sorridere ma che è la pura verità. In genere Detto Mariano mi dava una melodia su una cassetta e mi spiegava il contenuto del film. Ascoltando la melodia e tenendo presente la trama del film, io scrivevo un testo che doveva condensare il senso della pellicola. Invece per “Il ragazzo di campagna”, Detto Mariano mi telefonò da Milano e mi disse: “Poichè non posso consegnarti la cassetta con la melodia “ti do i numeri”. Di primo acchito mi venne da ridere immaginando Mariano che, all’improvviso, impazzisse e incominciasse a “dare i numeri”. Ma per gli autori di testi come me esiste davvero una tecnica che attraverso i numeri riesce a scrivere le parole di una canzone. Infatti i numeri danno la lunghezza del verso e soprattutto fanno capire dove cadono gli accenti. Vi faccio un esempio attinente proprio a questo film. Se io dico 38 3 39 -38 3 -28 6 3-29 6 3 diventa come ho scritto io “Beato te contadino- Beato te-non hai niente ma-sei più ricco di un re. Giuro che “non sto dando i numeri!”
Nel 1979 hai portato a Sanremo il singolo “Tu fai schifo sempre”; il brano ha rappresentato una stesura del testo rivoluzionaria, che aveva la capacità, da un lato, di ridicolizzare le canzoni romantiche del tempo ma che, dall’altro smascherava l’artificiosità di molti testi facendosi così portatore di un sarcasmo disincantato. Quanto ti ritieni un precursore musicale di artisti che grazie a te hanno trovato il successo?
R. Credo di aver avuto una bella intuizione quando ho scritto “Tu fai schifo sempre”. Io volevo scrivere una canzone che fosse il contrario di moltissime canzoni del periodo, tutte sdolcinate, tutte smielate, tutte omologate. Nel contempo volevo scrivere una cosa estremamente dissacrante, demenziale, che arrivasse come “un pugno nello stomaco”, soprattutto in un contesto come “Il festival di Sanremo” in cui esisteva, almeno allora, una certa “sacralità” nei testi delle canzoni che dovevano rimanere sempre fedeli a certi “canoni prefissati” da sempre. Quindi in qualche modo la mia canzone che sovvertiva completamente i “suddetti canoni” potrebbe essere definita “rivoluzionaria”. Credo di essere stato precursore di molti artisti , infatti un giorno Maurizio Costanzo disse “Non dimentichiamo che prima di Vasco Rossi, di Arbore, di Elio e le Storie Tese, ci sono I Pandemonium.”
Per impegni lavorativi hai dovuto lasciare la tua terra per trasferirti a Roma. Che legame hai con Salerno?
R. Ho lasciato Salerno nel 1975, quando la più importante casa discografica dell’epoca, la RCA ITALIANA, mi propose un contratto come autore e cantautore. Dopo una così importante proposta non avrebbe avuto senso restare a Salerno. Quindi andai a vivere a Roma e continuo ad abitare a Roma da allora. Salerno è sempre presente nel mio cuore, ma, raramente, mi reco nella città dove sono nato, se non per fare qualche presentazione di libri o qualche recital.
Da artista poliedrico e creativo quali consigli ti senti di dare ai giovani che tentano la carriera musicale oggi?
R. E’ molto difficile dare un consiglio ai giovani che vorrebbero intraprendere la carriera di cantante. E’ un mondo molto difficile e complicato. Oggi, forse, ancora più di ieri. Non si facessero ingannare e incantare i giovani da questi Talent e similari che lasciano immaginare che sia molto semplice diventare famosi. Intanto bisogna sottolineare che per 5-10 che riescono a farsi un buon nome o un discreto nome, ci sono centinaia se non migliaia di giovani che non diventeranno mai nessuno. Comunque se proprio un ragazzo o una ragazza sentono davvero, ma non per moda, di voler tentare questo difficoltosissimo percorso, io consiglierei prima di tutto di trovare un lavoro che dia una sicurezza economica e , nel frattempo, tentare di farsi un nome in questo mondo dello spettacolo così irto di ostacoli. Se poi uno riesce ad affermarsi talmente da poter vivere bene con gli introiti della carriera artistica, solo allora potrebbe lasciare il “cosiddetto posto fisso”.
Come vedi questo tempo: quali conquiste sono state fatte ed, in senso opposto, cosa è andato perso ed andrebbe recuperato nella contemporaneità per costruire un futuro migliore?
R. Devo dire che con la tecnologia sono stati fatti enormi passi in avanti, soprattutto nella ricerca scientifica, nella salvaguardia dell’ambiente e in molti altri importanti campi. Ma la stessa tecnologia ci ha portato, soprattutto attraverso i social, a vivere una vita “fin troppo virtuale”. E vivere una “vita virtuale” significa annullare totalmente i rapporti umani, il confronto reale fra persone e persone, la comunicazione vis à vis, guardandosi negli occhi. E si è affermata sempre più un tipo di comunicazione ingannevole, illusoria, fittizia. E si sono dissolti anche i valori fondamentali della vita come il rispetto, l’educazione, la fratellanza, la solidarietà, sostituiti, purtroppo, dall’arroganza, dall’egocentrismo, dalla convinzione di essere ognuno “il centro dell’universo”. Io credo che si debba sì guardare con benevolenza tutto quello di nuovo si è conquistato, ma senza mai dimenticare i “principi fondamentali dell’esistere”.
Concludiamo con una domanda aperta: quale messaggio vorresti trasferire ai giovani d’oggi che consenta di fornire gli strumenti per costruire il mondo di domani?
R. Non è semplice dare consigli ai giovani di oggi ma utilizzando le parole del grande sociologo Bauman: “Con la crisi del concetto di comunità emerge un individualismo sfrenato, dove nessuno è più compagno di strada ma antagonista di ciascuno, da cui guardarsi”. Quindi bisogna recuperare il concetto di comunità, che , come ho detto sopra, è equivalente a quello di solidarietà, di fratellanza e solo in questo modo si avrà la possibilità di recuperare il senso di quella categoria, sempre più rara, se non addirittura in via di estinzione, che viene definita “umanità”.
Alessandro Trabucco