VOLPIANO – Questa notte, mentre i più, giustamente, dormivano, gli uomini e le donne della Croce Bianca erano al lavoro. Il che non rappresenta certo una novità. Questa notte, però, non erano soli. Con loro, in sede, il console onorario dell’Ucraina a Torino, Dario Arrigotti. Il sindaco, Gianni Panichelli, con gli assessori Andrea Cisotto, Marco Sciretti e Luca Ferrero. I volontari dell’associazione Arca Solidale, con il loro presidente Sergio Pero.
E tante famiglie. Arrivate da San Carlo, Ciriè, Torino, Moncalieri, Venaria, Cuneo. Aosta. Tutti insieme per realizzare un piccolo miracolo. Tutti insieme per accogliere 62 profughi ucraini, scappati dalla guerra. Famiglie, adulti. E tanti bambini, quasi la metà. «Quando ho accettato l’incarico di console onorario – ha spiegato Arrigotti – mi sarei aspettato di dover fare rappresentanza, pubbliche relazioni. Non certo dover vivere questo incubo. Che ogni giorno diventa più drammatico del giorno precedente. La ferocia con cui il popolo ucraino è stato aggredito e massacrato è incredibile: chi si è reso responsabile di queste atrocità dovrà pagare. Ma vedere la generosità e il calore di chi si è mosso per aiutare queste persone è emozionante. E sono certo che l’Ucraina saprà resistere, e saprà fare ogni sforzo per uscire da questa brutta situazione».
Un doppio sforzo, per ora, l’ha fatto Arca Solidale: «Una pazzia – spiega il presidente, che non riesce a trattenere l’emozione – Una vera e propria pazzia. Siamo partiti con un pulmino di aiuti per l’Ucraina. Poi se n’è aggiunto un secondo, e un terzo. E grazie all’aiuto del console, al contributo importante di Specchio dei Tempi e all’ospitalità del Comune di Volpiano e della Croce Bianca abbiamo portato via da quell’inferno una sessantina di persone, che sono state accolte dalle famiglie che, generosamente, si sono fatte avanti». Già, le famiglie. Andrea Bacci è uno di coloro che ha risposto immediatamente all’appello. Coinvolgendo amici e parenti: «Abitiamo a Moncalieri, ma abbiamo una casetta a Pont, e l’abbiamo subito messa a disposizione – spiega – In modo che un nucleo familiare, oltre al dramma di dover abbandonare la proprie terra, non debba subire anche quello di essere smembrato appena giunto in Italia. Perché lo abbiamo fatto… ci siamo chiesti cosa avremmo provato se ci fossimo trovati noi, in quella situazione. Mia moglie, i miei figli. Mio suocero, che questa sera è qui con me. E ci siamo fatti avanti. Ho dei cugini che abitano a Pont, e anche loro si sono detti disponibili a dare una mano. E per quanto mi riguarda, nonostante la distanza, un giorno si e un giorno no andrò a Pont, a trovare questa famiglia. Perché è importante che abbiano una casa, me è altrettanto importante che non si sentano abbandonati». E torniamo al cuore della notte. Ad un pullman che, con gli autisti, gli accompagnatori e l’interprete dell’associazione, dopo un viaggio di 24 ore, con una sosta che sembrava non finire mai alla frontiera, è finalmente arrivato a destinazione. Agli occhi sbarrati dei bambini, che non capivano cosa stava succedendo. Alle storie di dolore degli adulti: la case rase al suolo, le bombe che scoppiavano ovunque, i razzi che sfrecciavano sopra i tetti facendo tremare le pareti. La distruzione. Il tempo di scendere, finalmente, dal bus. Le formalità di rito, l’immancabile tampone, perché non bastasse la guerra bisogna pure fare i conti con il Covid, e poi un nuovo viaggio, più breve, verso una nuova casa, una nuova famiglia. Verso quella pace che, a casa loro, non esiste più.
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